img


"Concetti primitivi e Didattica della matematica"
1.Concetto primitivo
In molte presentazioni di nozioni matematiche per concetto primitivo o nozione primitiva si intende un concetto che, per la propria semplicità ed intuitività, si rinuncia a definire mediante termini e concetti già definiti all'interno di un sistema formale, e che al contrario si sceglie di sfruttare per formulare la definizione di altri concetti; pertanto un concetto primitivo si accetta senza spiegazioni perché il suo significato è ovvio.

In molte esposizioni della teoria degli insiemi, l'insieme stesso è considerato un concetto primitivo. Infatti è pressoché impossibile darne una definizione che non ricorra a impegnative nozioni della logica matematica senza usare termini come lista, complesso di, aggregato, raggruppamento, ecc... che, in realtà, non sarebbero altro che sinonimi di tale concetto.

Anche molte esposizioni della geometria fanno riferimento a entità fondamentali che svolgono il ruolo dei concetti primitivi. Nella geometria euclidea sono il punto, la retta e il piano; questi di solito vengono suggeriti passando da una visione di entità sensibili ad una visione immaginativa con un processo di idealizzazione che conduce ad entità formali con il ruolo di modelli delle corrispondenti sensibili. Per esempio il concetto di punto viene suggerito dall'osservazione di un granello di sabbia o dalla punta di uno spillo; il concetto di retta da un sottile filo di seta o da un raggio di luce; il concetto di piano dalla superficie tranquilla di uno specchio d'acqua.
2.Assiomatizzazione delle teorie e concetti primitivi
In un sistema assiomatico si danno due tipi di oggetti "fondamentali":
1.dei "concetti non definiti", detti appunto concetti primitivi, i quali sono considerati noti a priori;
2.degli "enunciati non dimostrati", detti assiomi del sistema, i quali sono considerati veri a priori.

Mettendo assieme i "concetti non definiti" con gli "enunciati non dimostrati" si ottiene il fondamento di un sistema deduttivo, il "punto di partenza" da cui ricavare tutti gli altri teoremi e concetti.

Nessuna teoria, tuttavia, nasce direttamente come sistema assiomatico rigoroso e formale, ma in molti casi si sviluppa per lungo tempo a partire dalla intuizione di alcuni concetti fondamentali ritenuti noti e di alcune loro relazioni che si assumono come fondamentali, anche grazie a loro caratteristiche di intuitiva evidenza. Ad esempio si può cominciare a parlare di "insieme" dando per scontato che tutti sappiano intuitivamente che cosa è un insieme, dal momento che se si parla dell'"insieme degli esseri umani" o dell'"insieme delle balene" tutti possono concordare sulle caratteristiche dell'entità di cui si sta parlando. Quando poi questi concetti non siano già noti intuitivamente, si ricorre ad alcuni semplici esempi, fidando che gli interlocutori possano ricavare intuitivamente il significato del termine, anche quando esso non venga definito in modo esplicito.

A mano a mano che la teoria viene sviluppata, il problema di spiegare "che cosa sono" quegli oggetti considerati fondamentali e intuitivamente noti si fa sempre più pressante. Ciò accade per diverse ragioni:
per venire incontro a delle domande filosofiche sui fondamenti della teoria che si sta costruendo, dal momento che può sembrare insoddisfacente ricorrere a una cosa vaga come l'intuizione per fondare una disciplina;
perché diversi "addetti ai lavori" possono non trovarsi d'accordo su una affermazione o su un risultato, e rendersi conto che ciò è dovuto al fatto che attribuiscono significati diversi allo stesso termine, sicché si pone il problema di stabilire quale sia il significato "giusto";
ma soprattutto perché ad un certo punto può capitare di imbattersi in dei casi del tutto singolari, nei quali l'intuizione sembra venire a mancare o diventare fallace, come quando vengono formulati dei "paradossi".

Quest'ultimo caso, quello della comparsa dei "paradossi" è uno dei momenti in cui la sensibilità filosofica di chi cerca i "fondamenti" si incontra con la sensibilità scientifica di chi cerca di sviluppare delle "conoscenze". Finché il matematico o lo scienziato riescono a dimostrare teoremi e scoprire relazioni precedentemente ignote, possono trascurare di porsi delle domande come: "Che cosa è un insieme?" o "Che cosa è un numero?". Quando però il loro modo di procedere porta a dimostrare una affermazione ed anche l'affermazione contraria, allora la disciplina sembra precipitare nel vuoto, e diventa impellente cercare di rispondere a quelle domande. Si tratta di fasi di grande crisi ma anche di crescita, perché gli "addetti ai lavori" sono costretti a confrontarsi fra di loro sui significati dei termini che usano per addivenire a delle affermazioni condivise e intersoggettive, e sono anche costretti a interrogare se stessi e la propria disciplina, ponendosi domande che difficilmente si sarebbero poste se non avessero dovuto affrontare un evento critico.

Nel momento in cui ci si comincia a porre domande sul significato dei termini fondamentali, considerati primitivi e noti per intuizione, si prova un grande disorientamento, legato alla sensazione di star precipitando in dei circoli viziosi. Ad esempio se si cerca di rispondere alla domanda: "Che cosa è un numero?", si resta interdetti, e nell'abbozzare una qualunque risposta ci si accorge di star usando dei concetti, come "quantità" o "pluralità", che a loro volta rimandano al concetto di "numero". Parimenti se si cerca di rispondere alla domanda: "Che cosa è un insieme?", qualunque risposta si tenti di dare nominerà una "collezione", o una "molteplicità", o qualche altro concetto che alla fine, se indagato, mostrerà di rimandare a quello di insieme, cioè al concetto che si inteva definire. Un altro concetto che sembra essere irriducibile è quello di "successione": se si cerca di dire che cos'è una successione ci si ritrova puntualmente a parlare di "elenco" o "lista", o "sequenza", o altri concetti simili, che alla fine rimandano all'idea di disporre una... successione di oggetti in modo ordinato, uno di seguito all'altro.

A questo punto si crea una situazione singolare: quei concetti che se affidati alla intuizione sembravano essere noti ed evidenti a chiunque, o facilmente illustrabili a chiunque sulla base di pochi semplici esempi, sono gli stessi concetti che si dimostrano estremamente refrattari a lasciarsi definire a partire da altri concetti più fondamentali. Questi concetti fondamentali mostrano di avere quasi una duplice natura: risultano "intuitivamente facili" e "rigorosamente difficili", sicché quando si voglia impostare in modo rigoroso un concetto che l'intuizione acquisisce in modo immediato come "evidente", ci si trova di fronte a problemi filosofici profondissimi. Si ha la netta impressione di essere arrivati davvero alle colonne d'Ercole delle definizioni, e che qualunque tentativo si andare oltre sia destinato a fallire. D'altra parte se anche si trovasse il modo di ricondurre questi concetti a qualche altro concetto più fondamentale, o di ricondurre tutti i concetti fondamentali a uno solo (cosa che, con qualche difficoltà, è effettivamente possibile), resterebbe comunque il problema di definire quell'ultimo concetto fondamentale, il quale non potrebbe essere ricondotto a nessun altro concetto senza innescare una sorta di circolo vizioso.

Dunque da una parte si deve rinunciare a definire qualunque concetto sulla base di qualche altro concetto, ma allo stesso tempo ci si trova a dover affrontare dei problemi che impongono ciò che verrebbe da chiamare una "definizione rigorosa" di quei concetti.
3.Definizione esplicita e implicita
Nella situazione di stallo descritta sopra, anche il matematico o lo scienziato sono costretti, magari loro malgrado, ad improvvisarsi filosofi, ed a chiedersi che cosa si debba intendere per definizioni, in che cosa debba consistere la risposta alla domanda "che cosa è?", o quando si possa dire di aver detto il "significato" di un termine. Tutte queste domande hanno qualcosa in comune, poiché ciò che si sta cercando di fare è di "definire la definizione", o di dire "l'essenza dell'essere", o di spiegare il "significato di significato'".

In questi problemi il filosofo ci può passare anche tutta la vita, poiché in fondo è il suo mestiere, ma il matematico o lo scienziato in qualche modo hanno bisogno di venirne fuori, e una maniera di venirne fuori è "agire": imboccare una certa strada e percorrerla, senza cercare preventivamente di dimostrare che è quella "giusta", ma lasciandosi condurre da essa.

Questo è ciò che fece, ad esempio, David Hilbert, quando trovandosi nella impossibilità di ricondurre i concetti fondamentali della geometria ("punto", "retta", "giacere fra", eccetera) e nella esigenza di riformulare i postulati della geometria in modo rigoroso, con una buona dose di spregiudicatezza rinunciò a priori a qualunque tentativo di definire quei concetti in modo "esplicito", e si limitò a costruire un sistema assiomatico che "funzionasse", ovvero che fosse in grado di dimostrare teoremi geometrici, coprendo tutte le possibili domande della geometria e senza mai produrre delle contraddizioni.

Compiuta questa impresa, Hilbert sostenne che il sistema assiomatico, per il semplice fatto di "funzionare", ovvero di poter rispondere con coerenza e completezza alle domande che si potevano porre su quei concetti fondamentali, in qualche modo era in grado di "definire" quei concetti. Non si trattava però di una definizione esplicita, come quella che si dà quando un concetto viene esplicitamente ricondotto ad un altro, ma di una definizione implicita.

Così secondo Hilbert quando si affronta il problema dei fondamenti si trova una stratta relazione fra i "concetti non definiti" e gli "enunciati non dimostrati", che a sua volta è legata alla stretta relazione esistente fra dimostrazioni e definizioni. Presi separatamente gli uni e gli altri sembrano destinati ad essere fondati sul nulla, ma messi assieme costituiscono una struttura in grado di "funzionare", sicché si ha l'impressione che i concetti fondamentali e gli assiomi siano in grado, in un certo senso, di fondarsi reciprocamente.

L'approccio spregiudicato di Hilbert, che dopo secoli di dispute filosofiche tagliava il nodo gordiano della definizione dei concetti con un colpo secco e un fatto compiuto, suscitò ampie controversie. Anche lo stesso Frege, che pure era uno dei padri dell'assiomatizzazione, contestò il lavoro di Hilbert sostenendo come una teoria costruita in modo rigoroso non potesse utilizzare termini il cui significato non fosse stato preventivamente spiegato in modo esauriente e rigoroso. Frege sosteneva, insomma, che le definizioni dovessero dare i "significati", e che gli assiomi dovessero dire delle "verità", e che non fosse ammissibile che un sistema assiomatico potesse "autofondarsi" senza cercare i propri fondamenti in un qualche "stato di cose" esterno ad esso, a cui fare riferimento.

Questa è appunto la caratteristica principale del metodo adottato da Hilbert per costruire un sistema assiomatico: il sistema risulta chiuso in se stesso, autoreferenziale, autonomamente capace di provare di essere "vero", per il semplice fatto di essere autoconsistente e completo, cioè di saper rispondere a tutte le domande che è in grado di porsi e di non rispondere mai in modo contraddittorio. E tutto questo senza mai dover uscire da sé per fare riferimento a qualche realtà esterna, una realtà costituita da oggetti che sarebbero i "significati" dei termini e da stati di fatto che corrisponderebbero alla "verità" degli assiomi e dei teoremi via via dimostrati.

Ci sono due grandi critiche che si possono muovere a questo approccio, ed entrambe sono state ampiamente avanzate e anche dibattute per tutto il corso del XX secolo e fino ad oggi:
a prescindere dal fatto che quella teoria riesca effettivamente ad autofondarsi, si può considerare del tutto priva di senso o di utilità una teoria che non faccia riferimento ad una qualche realtà esterna, ad uno "stato di cose" da descrivere;
si può seguire la strada imboccata da Hilbert per andare fino in fondo, portarla alle sue estreme conseguenze, e vedere se un sistema assiomatico può effettivamente rispondere a tutte le domande che è capace di porsi senza mai produrre delle contraddizioni.

Questo secondo problema è quello che si è posto Kurt Gödel, dimostrando i suoi famosi teoremi di incompletezza che sembrano pregiudicare irrimediabilmente la possibilità di costruire sistemi assiomatici fondati unicamente su se stessi e riferiti unicamente a sé. Non tutti ritengono però che i teoremi di Gödel abbiano dimostrato l'impossibilità del progetto di Hilbert, e la questione rimane ancora aperta.

Oggi la matematica sta affrontando di nuovo il problema dell'"autofondazione". Il dibattito si è aperto sulla teoria delle categorie, la quale mette in campo un imponente apparato teorico il cui scopo ultimo sembrerebbe quello di rendere la meta-matematica (cioè qualunque "discorso sulla matematica", e dunque anche qualunque discorso atto a "fondare" la matematica) un fatto algebrico. In questo modo la matematica verrebbe ad essere la disciplina delle discipline, l'unica in grado di autofondarsi, e, come tale, anche la disciplina su cui tutte le altre dovrebbero essere fondate. La matematica, insomma, prenderebbe il posto che Aristotele avrebbe voluto assegnare alla metafisica, ovvero quella disciplina che avrebbe dovuto dire "l'essenza dell'essere", così come - dopo la "svolta linguistica" - la semiotica pensò di poter dire il "significato di 'significato'".
4.Archetipo
Il termine viene usato, attualmente, per indicare, in ambito filosofico, la forma preesistente e primitiva di un pensiero (ad esempio l'idea platonica); in psicoanalisi da Jung ed altri autori, per indicare le idee innate e predeterminate dell'inconscio umano; per derivazione in mitologia, le forme primitive alla base delle espressioni mitico-religiose dell'uomo e, in narratologia, i metaconcetti di un'opera letteraria espressi nei suoi personaggi e nella struttura della narrazione; in linguistica da Jacques Derrida per il concetto di «archiscrittura»: la forma ideale della scrittura preesistente nell'uomo prima della creazione del linguaggio e da cui si origina quest'ultimo. L'archetipo è inoltre utilizzato in filologia per indicare la copia non conservata di un manoscritto (l'originale) alla quale risale tutta la tradizione (le copie del manoscritto originale).
5.Sistema assiomatico
In matematica, un sistema assiomatico (o assiomatica) è un insieme di assiomi che possono essere usati per dimostrare teoremi. Una teoria matematica consiste quindi in una assiomatica e tutti i teoremi che ne derivano.
6.Proprietà di un Sistema assiomatico
Un sistema assiomatico è coerente se non è possibile trarre dal sistema due teoremi contradditori.
In un sistema assiomatico un assioma è detto indipendente se non può essere dedotto dagli altri assiomi. Un sistema è indipendente se ogni suo assioma è indipendente.
Un sistema assiomatico è completo se è possibile dimostrare (a partire da questi assiomi) la verità o falsità di ogni proposizione (dedotta dal sistema?) .
7.Dimostrazioni e definizioni
Sia gli assiomi sia i teoremi che possono essere ricavati da essi sono degli enunciati, ovvero delle affermazioni che dichiarano la sussistenza di certe relazioni fra certi termini. Così quando si dichiarano gli assiomi di un sistema assiomatico, si stanno dichiarando degli enunciati che si assumono per veri a priori, e i teoremi che si possono dedurre da quegli assiomi sono veri quando si sia assunta la verità degli assiomi. Da questo punto di vista gli assiomi possono essere considerati dei "teoremi primitivi", cioè quei teoremi che non si ricavano da nessun altro e dai quali si ricavano tutti gli altri.

Sia gli assiomi sia i teoremi, come si è detto, enunciano qualcosa di certi termini. Come gli assiomi possono essere considerati dei "teoremi primitivi", che in quanto tali sono "indimostrabili" (o comunque non dimostrati, e assunti per veri a priori) così fra tutti i termini che compaiono in una teoria ce ne sono alcuni che risultano "indefinibili" (o comunque non definiti, e assunti per noti a priori). Questi termini vengono detti termini primitivi (o anche concetti primitivi o nozioni primitive): si tratta di quei termini che non sono definiti a partire da nessun altro termine, e a partire da quali si definiscono tutti gli altri.

Tutto ciò non significa che fra le dimostrazioni e le definizioni ci sia una separazione, in quanto questi due aspetti di una teoria risultano strettamente complementari fra loro.

Una evidenza immediata di questa complementarità è il fatto che spesso alcuni termini vengono definiti dopo aver dimostrato un teorema di esistenza e unicità. Ad esempio se dimostriamo che esiste un certo numero avente certi requisiti, e che quel numero è unico, allora possiamo cominciare a fare riferimento ad esso usando degli articoli e dei pronomi dimostrativi ("il numero che...", o "quel numero che..."), dopodiché per semplificare le espressioni possiamo introdurre un nome per quel termine, ottenendo così una nuova definizione.

Un altro aspetto, più sottile e cruciale, della stretta connessione fra dimostrazioni e definizioni emerge quando ci si chieda come sia possibile partire da "verità indimostrate" e "concetti indefiniti". Se nel momento in cui enunciamo gli assiomi non sappiamo di cosa stiamo parlando, che senso ha dire qualcosa? E come facciamo a prendere per vero ciò che stiamo dicendo? Di fronte a queste domande si pongono dei profondi problemi filosofici sul fondamento delle teorie, problemi a cui si lavora da secoli se non da millenni.

Nella storia della filosofia molti hanno tentato di rispondere a questi interrogativi facendo ricorso a ipotetiche facoltà umane capaci di trascendere la semplice dimostrazione dei teoremi e la definizione esplicita dei termini. Tali facoltà sarebbero più o meno riconducibili a ciò che viene comunemente definito intuizione. Così i concetti primitivi sarebbero "noti per intuizione", e gli assiomi sarebbero "evidenti per intuizione". Anche assumendo che tutto ciò possa aver senso, resta aperto il problema di stabilire se tale presunta facoltà che abbiamo definito intuizione sia una facoltà che ricava il significato di certi concetti e l'evidenza di certi enunciati a partire dall'esperienza, oppure se quei significati e quell'evidenza siano già noti all'uomo in modo innato.

Su queste questioni si sono espresse nei secoli le opinioni più varie, discordi e anche confuse. Un tentativo di venirne fuori in modo rigoroso è stato intrapreso a partire dalla fine del XIX secolo (con i lavori di Frege, Russell, Wittgenstein eccetera), rinunciando a speculazioni vaghe di stampo metafisico e concentrandosi sullo studio delle proprietà dei sistemi assiomatici. Da tale studio è emersa la possibilità che i concetti primitivi, benché non vengano definiti esplicitamente a partire da nessun altro concetto, risultino comunque definiti implicitamente "fra di loro", a partire proprio dal sistema degli assiomi.

Il concetto di definizione implicita richiederebbe una lunga trattazione di logica, ma come primo approccio possiamo usare una immagine poco più che metaforica, considerando che avviene qualcosa di simile a ciò che accade quando si ha un sistema di equazioni in più incognite. In quel caso si parte da una serie di grandezze incognite e, benché esse siano incognite, si dichiarano fra di esse una serie di relazioni. Nessuna di queste relazioni, di per sé, è sufficiente a determinare il valore delle incognite, eppure se quelle relazioni sono in numero "sufficiente", quando vengano prese tutte assieme esse determinano in modo univoco il valore delle incognite. Nel caso delle definizioni implicite si parte da un insieme di concetti da definire, e - pur senza conoscere il significato di quei concetti - si dichiarano degli enunciati che li contengono. Quando questi enunciati raggiungono un numero "sufficiente", diventa possibile dedurre dei teoremi a partire da quegli enunciati, sicché per quei concetti si è in grado di dire ciò che è "vero" e ciò che è "falso". Pertanto quando gli enunciati relativi a quei concetti e assunti per veri a priori diventano "sufficienti", si verificano contemporaneamente due circostanze:
1. a partire da quegli enunciati è possibile dedurre dei teoremi;
2. tali teoremi enunciano qualcosa dei termini primitivi, o producono dimostrazioni a partire dalle quali si possono definire altri concetti derivati a partire da quelli primitivi, e poi concetti derivati da quelli derivati e così via.

Quando si verificano queste circostanze noi diciamo, appunto, che tale sistema di enunciati costituisce un sistema assiomatico. Pertanto il sistema assiomatico:
da una parte è caratterizzato come un sistema di enunciati a partire dai quali si possono dimostrare dei teoremi riguardanti certi termini e i termini derivanti,
ma d'altra parte, proprio perché a partire da quel sistema di enunciati diventa possibile dire che cosa sia "vero" o "falso" di quei termini, dobbiamo anche ammettere che quando quel sistema di enunciati diventa "sufficiente" per dimostrare dei teoremi allora anche i termini primitivi, quelli che non erano stati definiti in modo esplicito, risultano essere in qualche modo "noti"; e poiché non ne è stata data una definizione esplicita, si dice che se ne è data una definizione implicita, la quale risulta essere contenuta "intrinsecamente" nel sistema degli assiomi.

Qui si vede chiaramente lo stretto legame fra dimostrazioni e definizioni: il sistema degli assiomi è tale perché a partire da esso si possono dimostrare dei teoremi circa i termini primitivi e i loro derivati, ma se è possibile dimostrare dei teoremi è proprio perché - in qualche modo "implicito" - quegli assiomi definiscono quei termini.

Ad esempio se si parte da un insieme di termini primitivi e ignoti come "punto", "retta" eccetera, e si dichiarano una serie di enunciati dai quali sia possibile ricavare che "la somma degli angoli interni di un triangolo è un angolo piatto", si sta dicendo qualcosa di "vero" di concetti che non si sono mai definiti esplicitamente, eppure il fatto che a partire da quegli assiomi sia diventato possibile dire ciò che è "vero" di quei concetti significa che in qualche modo quegli assiomi contengono ciò che la metafisica tradizionale definirebbe l'"essenza" di quei concetti.
8.Cenni storici
Il primo tentativo di assiomatizzazione risale agli Elementi di Euclide, (IV-III secolo a.C.) e riguarda la geometria piana. Euclide fornisce 5 nozioni comuni e cinque postulati, da cui poi ricava altri teoremi. Nello stesso periodo, Aristotele dà nell'Organon la prima impostazione formale della logica, raccogliendo vari assiomi da Platone e altri filosofi precedenti. Nella matematica, tuttavia, il primo tentativo di assiomatizzazione si ebbe nel 1888, quando Richard Dedekind propose un insieme di assiomi sui numeri,[1]. L'anno seguente, Giuseppe Peano riprende il lavoro di Dedekind ed espone i suoi assiomi sull'aritmetica:
1.Esiste un numero naturale, 0 (o 1)
2.Ogni numero naturale ha un numero naturale successore
3.Numeri diversi hanno successori diversi
4.0 (o 1) non è il successore di alcun numero naturale
5.Ogni insieme di numeri naturali che contenga lo zero (o l'uno) e il successore di ogni proprio elemento coincide con l'intero insieme dei numeri naturali (assioma dell'induzione)

Si prende 0 o 1 a seconda del modello dei numeri naturali voluto. Peano lascia sottointesi gli assiomi logici che gli permettono di operare con la logica simbolica. Vengono sottointese alcune nozioni comuni:
1.Un numero può essere univocamente e solo minore, maggiore o uguale ad un altro numero (relazioni di ordinamento)
2.Dati due numeri m ed n, con m > n, procedendo attraverso i successori di n si arriva a m in un numero finito di passi (continuità dei numeri)

Già Gottlob Frege con il suo lavoro Die Grundlagen der Arithmetik[2] del 1884 e il successivo Grundsetze der Arithmetik, tentava di ridurre l'aritmetica alla logica. Bertrand Russell minò il suo tentativo scoprendo nel 1901 l'omonimo paradosso di Russell, e per ovviare elaborò con Alfred North Whitehead i Principia Mathematica. Nel 1899, David Hilbert riformula gli assiomi della geometria, esplicitando anche le nozioni implicite lasciate sottintese da Euclide: ad esempio, Euclide non dice che esistono almeno tre punti in piano, e che esiste almeno un punto del piano che non appartiene alla retta, e così via. Il Grundlagen der Geometrie (Fondamenti di geometria) consiste di
1.Tre oggetti, che lascia non definiti: punto linea piano
2.Sei relazioni, sempre indefinite:  Essere su,  Essere tra,  Essere in,  Essere uguale a,  Essere parallelo a,  Essere continuo.
3.Ventuno assiomi (detti assiomi di Hilbert) otto relazioni di incidenza quattro proprietà di ordinamento cinque relazioni di congruenza tre relazioni di continuità un postulato sul parallelismo equivalente al postulato delle parallele di Euclide

Nel Congresso del 1900, Hilbert pose alcuni problemi, tra cui la dimostrazione della consistenza degli assiomi della matematica e l'assiomatizzazione della fisica. Nel 1931, Kurt Gödel dimostrò che ogni sistema assiomatico equivalente agli assiomi di Peano era incompleto e che se tale sistema è coerente, non può essere utilizzato per dimostrare la propria coerenza. (Teorema di incompletezza di Gödel).
--------------------------------------------------Fine
9.fondamenti della matematica e ascesa della logica
L'attività più profonda dei matematici del nostro secolo è, senza dubbio, la ricerca sui fondamenti. I problemi imposti ai matematici, ed altri che essi hanno volontariamente preso in considerazione, riguardano non solo la natura della matematica, ma anche e soprattutto la validità della matematica deduttiva.

Tra la fine dell'800 e i primi anni del '900 attività diverse convergono a portare in primo piano il problema dei fondamenti.

In verità, la matematica entra in un periodo d’intenso travaglio già nella prima metà del secolo scorso, ossia quando la geometria si viene a trovare in un momento di fibrillazione a seguito dell'introduzione delle geometrie non euclidee. Fin da quando Euclide (300 a.C.) presentò i sui "Elementi", infatti, la geometria è sempre stata considerata il prototipo di ciò che doveva essere una disciplina rigorosa sulla quale si dovevano edificare le altre discipline della matematica e delle altre scienze in genere. La geometria, infatti, esibiva dei risultati che trovavano giustificazione nell'osservazione della realtà e quindi si poteva essere certi della loro fondatezza. I lavori esibiti intorno alla metà del secolo da Lobatchevski e Bolyai, invece, fanno cadere queste certezza, giacché essi portano a concludere che per un punto fuori di una retta data non è detto che passi una sola retta ad essa parallela. Si può pensare questo e coerentemente il contrario di questo.
10.Antinomie e paradossi della teoria degli insiemi
Nei primi anni del nostro secolo poi le fondamenta della matematica sono vigorosamente scosse dalla scoperta di contraddizioni, dette eufemisticamente paradossi o antinomie, soprattutto nella teoria degli insiemi. A dire il vero la parola paradosso è ambigua in quanto si pur riferire ad un'apparente contraddizione, mentre ciò che i matematici incontrano in quel periodo sono delle indiscutibili contraddizioni.

Uno di questi paradossi fu enunciato da Kurt Grelling e Leonard Nelson nel 1908 come segue. Alcune parole descrivono se stesse. Per esempio la parola "polisillabica" é polisillabica. La parola "monosillabica", però, non è monosillabica. Chiamiamo le parole che non descrivono se stesse eterologiche. Secondo tale definizione, allora, la parola X è eterologica se X non è essa stessa X. Ora, se sostituiamo X con eterologica, otteniamo che "eterologica è eterologica se non è eterologica".

Un altro paradosso fu espresso in forma popolare da B. Russell nel 1918 ed è noto come "paradosso del barbiere". Un barbiere di villaggio, vantandosi di non avere concorrenza, si fa pubblicità affermando che egli, ovviamente, non fa la barba a quelli che si radono da soli, ma fa la barba a tutti quelli che non si radono da soli. Un giorno gli capita di chiedersi se dovrebbe radere se stesso, scoprendo così di trovarsi in un bell'impiccio logico. Infatti, se si radesse da solo, allora per la prima parte della sua affermazione non dovrebbe farlo; ma se non si radesse da solo, secondo la sua vanteria dovrebbe farlo.

D'altra parte Cantor già rilevava in una lettera a Dedekind del 1899 che non si poteva più parlare d’insieme di tutti gli insiemi senza cadere in contraddizioni. In effetti, questo è ciò che è chiamato in causa nel paradosso di Russell. La classe di tutti gli uomini non è un uomo. Tuttavia, la classe di tutte le idee e un idea, così come la classe di tutte le biblioteche è una biblioteca. Pertanto, alcune classi non sono membri di se stesse ed alte sì. La causa di tali paradossi, come evidenziavano Russell e Whitehead, è che un oggetto è definito in termini di una classe di oggetti che contiene l'oggetto stesso. Nel 1908 Zermelo fece notare che tali definizioni, dette impredicative, sono usate anche per definire alcuni concetti di analisi come per es. il limite inferiore di un insieme di numeri. Allora l'analisi classica contiene dei paradossi.

La questione dei paradossi turbò profondamente i matematici e ridusse la matematica, come struttura logica, in condizioni pietose, fino a rimpiangere i giorni felici che precedettero la scoperta di così compromettenti contraddizioni.
11.Assiomatizzazione della teoria degli insiemi
Forse non è sorprendente che il primo espediente cui ricorsero i matematici sia stato l'assiomatizzione della teoria degli insiemi formulata da Cantor piuttosto liberamente, tanto che alcuni chiamano teoria ingenua degli insiemi. Infatti, l'assiomatizzazione della geometria e dei sistemi numerici aveva risolto problemi logici in quelle aree, e sembrava probabile che con l'assiomatizzazione si sarebbero chiarite le difficoltà incontrate in teoria degli insiemi.

Il primo ad affrontare questa questione fu lo stesso Zermelo, il quale era convinto che i paradossi nascessero dal fatto che Cantor non aveva ristretto il concetto di insieme. Nel 1895 Cantor aveva definito un insieme come una collezione di oggetti distinti dalla nostra intuizione o dal nostro pensiero. La cosa era piuttosto vaga, e perciò Zermelo sperava che assiomi chiari ed espliciti avrebbero chiarito ciò che si deve intendere con il termine insieme e quali proprietà esso debba avere. Cantor stesso non era inconsapevole del fatto che il suo concetto di insieme creava problemi, ed, infatti, nella lettera a Dedekind del 1889 distingueva tra insiemi coerenti ed insiemi incoerenti. Zermelo pensava di poter restringere la definizione di insieme agli insiemi coerenti di Cantor, e ciò sarebbe stato sufficiente per la matematica. Il suo sistema assiomatico conteneva concetti fondamentali e relazioni definite solo dagli enunciati degli assiomi stessi. Fra questi c'era il concetto stesso di insieme e la relazione di appartenenza ad un insieme. Non venne usata alcuna proprietà degli insiemi che non fosse garantita dagli assiomi. Anche l'esistenza di un insieme infinito ed operazioni quali l'unione e la formazione di sottoinsiemi venivano fornite dagli assiomi. E' da notare che Zermelo includeva l'assioma della scelta. Il suo programma si proponeva di ammettere nella teoria degli insiemi solo quelle classi che con buona probabilità non avrebbero generate contraddizioni. Perciò la classe nulla, ogni classe finita e la classe dei numeri interi sembravano classi sicure. A partire da esse, attraverso le operazioni citate, si potevano ottenere altre classi che pertanto sarebbero state sicure. Egli, tuttavia, evitava la complementazione, in quanto mentre X potrebbe essere una classe sicura, la classe complementare di X potrebbe non essere sicura in qualche universo di oggetti.

Gli sviluppi di Zermelo furono perfezionati da Fraenkel e variazioni successive furono apportate da John von Neumann. La speranza di evitare paradossi poggiò, nel sistema di Zermelo-Fraenkel, sulla restrizione dei tipi di insiemi ammessi, pur ammettendo abbastanza da poter dare i fondamenti all'analisi. L'idea di Neumann era più audace. Egli operò una distinzione tra classi ed insiemi. Le classi sono raggruppamenti così grandi da non poter essere contenute in altre classi, mentre gli insiemi sono classi più ristrette, e possono essere membri di una classe. Pertanto gli insiemi sono classi sicure. Come lo stesso Neumann evidenziava, non era ammettendo le classi che si giungeva a contraddizioni, ma trascurandole come membri di altre classi.

La teoria formale degli insiemi di Zermelo-Fraenckel, modifica da Neumann ed altri, è adeguata allo sviluppo della teoria degli insiemi necessaria per tutta l'analisi classica ed evita i paradossi, almeno in quanto fino ad oggi non ne sono stati scoperti all'interno della teoria stessa. Tuttavia, la coerenza della teoria degli insiemi formalizzata non è stata ancora dimostrata, ossia ancora non si è riusciti a dimostrare che gli assiomi posti a fondamenta di tale teoria non possano condurre a contraddizioni. A proposito della questione, ancora tutt'oggi aperta, della coerenza, Poincaré osservò: <<abbiamo messo un recinto intorno al gregge per proteggerlo dai lupi, ma non sappiamo se ci fossero già dei lupi all'interno del gregge>>.

Oltre al problema della coerenza, la teoria di Z-F faceva uso dell'assioma della scelta, che è necessario per dimostrare alcune parti dell'analisi standard, della topologia, dell'algebra astratta. Molti matematici, tra cui Hadamard, Lebesgue, Borel, Baire, lo consideravano discutibile e si chiedevano se esso fosse essenziale o dipendente dagli altri assiomi.

In ogni caso l’assiomatizzazione della teoria degli insiemi, anche se lasciava aperte alcune questioni quali la coerenza, avrebbe potuto tranquillizzare i matematici a proposito dei paradossi e portare ad un declino dell’interesse sulla questione dei fondamenti. Ma ormai erano diventate attive ed agguerrite molte scuole di pensiero sui fondamenti. Ai fautori di queste filosofie il metodo assiomatico proposto da Zermelo e modificato dagli altri non parve soddisfacente. Secondo alcuni esso era discutibile perché presupponeva l’uso della logica, proprio quando la logica e le sue relazioni con la matematica erano sotto indagine. Altri, più radicali, discutevano dell’opportunità di fare affidamento su qualunque tipo di logica, soprattutto se applicata ad insiemi infiniti.
12.Il logicismo di Frege, Russel e Whitehead
La scuola capeggiata da Frege tentava di riedificare la logica, e su di essa costruire la matematica. Questo programma fu ostacolato dalla comparsa dei paradossi, ma non fu abbandonato. In realtà esso venne perseguito indipendentemente da Russell e da Whitehead. Essi ebbero l’idea che la matematica fosse derivabile dalla logica e fosse perciò una sua naturale estensione. Questa scuola di pensiero, nota come scuola logicista, le cui idee fondamentali vennero delineate da Russell nei Principles of Mathematics (1903), inizia sviluppando la logica stessa da cui la matematica segue senza alcuna assioma della matematica propriamente detta. La logica viene sviluppata a partire dall’enunciazione di alcuni assiomi, da cui si deducono teoremi che possono essere usati in ragionamenti successivi. Perciò le leggi della logica ricevono una derivazione formale dagli assiomi. Anche nei Principia vi sono idee indefinite che ogni teoria assiomatica deve avere poiché non è possibile definire tutti i termini senza dover retrocedere all’infinito. Tra queste idee indefinite vi sono la nozione di proposizione elementare, la nozione di funzione proposizionale, l’asserzione della verità di una funzione proposizionale, la negazione di una proposizione e la disgiunzione di due proposizioni.

Successivamente Russell e Whitehead procedono a definire i numeri cardinali attraverso la corrispondenza biunivoca precedentemente introdotta. Dati i numeri naturali è possibile poi costruire i sistemi di numeri reali o complessi, le funzioni e di fatto tutta l’analisi. La geometria può essere introdotta attraverso i numeri. Questo allora è il grandioso programma della scuola logicista: fondare la matematica sulla logica. Non è necessario alcuno degli assiomi della matematica, ma la matematica è una naturale estensione delle leggi della logica. I postulati della logica e tutte le loro conseguenze sono arbitrari e, soprattutto, formali, ossia privi di contenuto. Ne segue che anche la matematica non ha contenuto, ma solamente forma. I significati fisici che associamo ai numeri o ai concetti geometrici non fanno parte della matematica. È pensando a questo che Russell disse: <<La matematica è quella materia in cui non conosciamo mai ciò di cui stiamo parlando, ne se ciò che diciamo è vero>>.

L’approccio logicista ha ricevuto molte critiche, la più pesanti delle quali è la critica filosofica della posizione logicista in toto. È stato obiettato, infatti, che se l’idea logicista fosse corretta allora tutta la matematica sarebbe una scienza puramente logico-deduttiva in cui i teoremi seguono dalle leggi del pensiero. Appare perciò inspiegabile che una simile elaborazione deduttiva possa rappresentare una gran varietà di fenomeni naturali quali l’acustica, l’elettromagnetismo e la meccanica. Inoltre, nella creazione della matematica l’intuizione immaginativa o percettiva devono fornire nuovi concetti, siano essi derivanti o meno dall’esperienza. Altrimenti come potrebbero nascere nuove conoscenze? Ma nei Principia tutti i concetti si riconducono a concetti logici. Dunque la formalizzazione del programma logicista non rappresenta la matematica in alcun senso reale: essa ci presenta il guscio, non il nocciolo.

Nonostante le critiche però, la filosofia logicista viene accettata da molti matematici. Inoltre la costruzione di Russell e Whitehead ha dato un notevole contributo nell’assiomatizzazione della logica in forma interamente simbolica ed ha portato enormemente avanti la disciplina della logica matematica.
13.L'intuizionismo di Kroneker e Brower
Un gruppo di matematici detti intuizionisti ebbe un approccio alla matematica radicalmente differente. Come nel caso del logicismo la filosofia intuizionista venne inaugurata nel tardo Ottocento quando la riorganizzazione del sistema numerico e della geometria era un’attività di grande rilievo. La scoperta dei paradossi poi stimolò la sua crescita ulteriore.

Il primo intuizionista fu Kronecker, che espresse le sue opinioni negli anni ’70 e ’80 del XIX secolo.

Egli pensava che il rigore di Weierstrass chiamava in causa concetti inaccettabili, e il lavoro di Cantor sui numeri transfiniti e la teoria degli insiemi non era matematica ma misticismo. Kronecker era disposto ad accettare i numeri interi perché sono chiari all’intuizione. Questi <<sono opera di Dio, tutto il resto è opera dell’uomo e perciò sospetto>>.

In un saggio del 1887, egli mostrava come certi tipi di numeri, per esempio le frazioni, possano essere definiti in termini di numeri naturali. Egli desiderava spazzar via la teoria dei numeri irrazionali e delle funzioni continue. Il suo ideale era che ogni teoria di analisi dovesse essere interpretata in termini di numeri naturali. Un’altra obiezione che egli faceva a molte parti della matematica era che esse non davano metodi costruttivi o criteri per determinare in un numero finito di passi gli oggetti di cui trattavano. Le definizioni dovrebbero contenere i mezzi per calcolare gli oggetti definiti in un numero finito di passi, e le dimostrazioni di esistenza dovrebbero permettere il calcolo fino ad ogni grado di precisione richiesto dalle grandezze di cui si sta mostrandone l’esistenza.

Ai suoi giorni Kronecker non trovo sostenitori della sua filosofia e per almeno venticinque anni nessuno sviluppò le sue idee. Tuttavia, dopo la scoperta dei paradossi, l’intuizionismo si rianimò e diventò un movimento largamente diffuso. Il suo più importante fautore fu Poincaré

Come Kronecker, egli insisteva sul fatto che tutte le dimostrazioni dovrebbero essere costruttive. Poincaré era d’accordo con Russell sul fatto che la sorgente dei paradossi era la definizione di collezioni e insiemi che includono gli oggetti definiti. Ulteriori critiche alla posizione logicista vennero sviluppate e discusse in corrispondenze epistolari tra Borel, Baire, Hadamard e Lebesgue.

Tuttavia le obiezioni portate dagli intuizionisti furono sporadiche e frammentarie. Il fondatore sistematico dell’intuizionismo moderno è Brouwer che nel 1907 cominciò a definire la filosofia intuizionista. L’idea di una totalità in sé conclusa dei risultati di un processo generativo è priva di senso.

Il processo e le sue possibilità sono l’unica cosa che c’è; dei suoi risultati si può dire che sono infiniti nel senso che, ad esempio, ogni punto eventualmente raggiunto può essere superato. L’infinità dei risultati è cioè solo potenziale, mai attuale.

Esistenza di un ente non può significare sua eventuale possibilità, ma soltanto sua avvenuta costituzione. Ne segue, in particolare, che dei due tipi di dimostrazione di esistenza correntemente usati in matematica:

definizione di un ente e dimostrazione del fatto che l’ente definito gode

della proprietà richiesta (dimostrazione diretta);

dimostrazione del fatto che se ogni ente non godesse della proprietà in questione si arriverebbe ad una contraddizione (dimostrazione indiretta);

solo la prima è accettabile, almeno nel senso che solo la prima può essere considerata una dimostrazione di esistenza.

Se ne ricava che, in particolare la stessa logica proposizionale è da rivedere.

Non può essere accettata quella legge che sta alla base della equivalenza tra due vie e che è nota come “legge del terzo escluso”.

La prospettiva rigorosamente costruttiva proposta e difesa da Brouwer e dai suoi discepoli, dopo un iniziale periodo di isolamento, dovuto oltre che alla radicale novità di certe sue impostazioni anche ad una certa forse eccessiva ambiguità e oscurità terminologica, è oggi al centro dell’attenzione di vasti settori della logica e della filosofia della matematica
14.Il formalismo di Hilbert
La terza fra le principali filosofie matematiche è nota come scuola formalista che ebbe a capo Hilbert. Egli cominciò a lavorare alla sua filosofia all’inizio del secolo avendo come fine quello di fornire una base al sistema numerico senza far uso della teoria degli insiemi, e di stabilire la coerenza dell’aritmetica. Infatti nella sua dimostrazione della coerenza della geometria essa viene ricondotta a quella dell’aritmetica. Inoltre egli cerca di combattere la tesi di Kronecker secondo cui si dovevano eliminare i numeri irrazionali.

Hilbert presentò un lavoro con le sue opinioni nel 1904 e poi non fece nient’altro su tali argomenti per quindici anni. Successivamente, per rispondere alle critiche intuizioniste all’analisi classica, riprese il problema dei fondamenti e continuò a lavorarci per il resto della sua carriera scientifica. Negli anni ’20 pubblicò parecchi lavori fondamentali, e gradualmente numerosi studiosi fecero proprie le sue idee.

La filosofia formalista compiuta sostiene che la logica deve essere trattata contemporaneamente alla matematica. La matematica è costituita da molte discipline, ciascuna delle quali deve avere una propria fondazione assiomatica.

Questa deve consistere di concetti e principi logici e matematici. La logica è un linguaggio dei segni che traduce gli enunciati in formule ed esprime i ragionamenti per mezzo di processi formali. Gli assiomi si limitano ad esprimere le regole con cui le formule derivano l’una dall’altra. Tutti i segni e i simboli delle operazioni sono liberati dal loro significato rispetto al contenuto. Perciò i simboli matematici sono svuotati di ogni significato.

In un articolo del 1926 Hilbert asserisce che gli oggetti del pensiero matematico sono i simboli stessi. Essi sono l’essenza e non rappresentano oggetti fisici idealizzati. Le formule possono implicare intuitivamente enunciati significativi, ma queste implicazione non fanno parte della matematica. In realtà, Hilbert sosteneva la legge del terzo escluso, tanto che egli affermò: <<Proibire ad un matematico l’uso del principio del terzo escluso è come proibire ad un astronomo l’uso del telescopio, o ad un pugile l’uso dei pugni>>.

Per i formalisti, allora, la matematica propriamente detta è un insieme di sistemi formali: ciascuno costruisce la propria logica insieme alla matematica, ciascuno ha i propri concetti, i propri assiomi, le proprie regole di deduzione dei teoremi, le proprie regole per l’uguaglianza e la sostituzione, e i propri teoremi. La matematica diventa non una materia su qualcosa, ma una collezione di sistemi formali, in ciascuno dei quali espressioni formali si ottengono da altre per mezzo di trasformazioni formali. Questo per quanto riguarda quella parte del programma di Hilbert che tratta della matematica propriamente detta.

Successivamente ci si chiese se le deduzioni siano libere da contraddizioni.

Questo non è necessariamente osservabile intuitivamente.

Hilbert e i suoi allievi, tra i quali lo stesso von Neumann, dimostrarono la coerenza di semplici sistemi formali e credettero di essere sul punto di raggiungere la meta: la dimostrazione della coerenza dell’aritmetica e della teoria degli insiemi.
15.Teorema di Godel e sue conseguenze
Ma poi entrò in scena Gödel (1906-78) il quale dimostrò che la coerenza della teoria dei numeri non può essere stabilita dalla ristretta logica permessa dalla matematica. Questo risultato è un corollario del suo stupefacente teorema di incompletezza il quale afferma che se una qualsiasi teoria formale T adatta ad abbracciare la teoria dei numeri è coerente e se gli assiomi del sistema formale dell’aritmetica sono assiomi o teoremi T, allora T è incompleto.

L’incompletezza è una macchia in quanto il sistema formale non è adeguato a dimostrare tutte le asserzioni formulabili nel sistema. Per aggiungere al danno la beffa, nel sistema vi sono asserzioni indecidibili, ma intuitivamente vere

All’incompletezza non si può porre rimedio aggiungendo S o ~S, perché Gödel ha dimostrato che ogni sistema che abbraccia la teoria dei numeri deve contenere una proposizione indecidibile. Perciò mentre Brouwer disse chiaramente che ciò che è intuitivamente certo è inferiore è inferiore a ciò che è matematicamente dimostrato, Gödel mostrò che l’intuitivamente certo va oltre la dimostrazione matematica.

Una delle implicazioni del teorema di Gödel è che nessun sistema di assiomi è adeguato ad includere, non solo tutta la matematica, ma neanche una qualsiasi branca significativa di essa, perché ogni sistema siffatto è incompleto.

Il risultato di Gödel inferse un colpo mortale all’assiomatizzazione globale.

L’inadeguatezza del metodo assiomatico non è in se stessa una contraddizione, ma è sorprendente perché i matematici si aspettavano che ogni enunciato vero potesse essere certamente dimostrato entro la struttura di qualche sistema assiomatico. Naturalmente questi ragionamenti non escludono la possibilità di nuovi metodi di dimostrazione che vanno al di là di ciò che permette la matematica di Hilbert.

Hilbert non era convinto che questo colpo distruggesse il suo programma. Egli ribatteva che anche se si dovessero usare concetti esterni ad un sistema formale essi dovrebbero essere ancora finiti ed intuitivamente concreti, e perciò accettabili. Hilbert era un ottimista ed aveva una fiducia illimitata nel potere del ragionamento e della comprensione umana.

Nessuna delle soluzioni proposte ai problemi basilari sui fondamenti, il logicismo, l’intuizionismo o il formalismo, ha raggiunto l’obiettivo di fornire un approccio alla matematica universalmente accettabile. Gli sviluppi successivi al lavoro di Gödel del 1931 essenzialmente non hanno alterato il quadro. Tuttavia vale la pena di ricordare almeno due risultati significativi.

Tra il 1940 ed il 1951, Gödel dimostrò che se il sistema Z-F privo dell'assioma della scelta è coerente, allora il sistema ottenuto aggiungendovi l'assioma della scelta è anch'esso coerente. Nel 1963, poi, Paul J. Cohen, ordinario di matematica alla Standeford University, ha dimostrato che l'assioma della scelta così come le ipotesi del continuo sono indipendenti dal sistema Z-F, cioè non possono essere dimostrate o confutate all'interno di tale sistema. Inoltre anche includendo l'assioma della scelta l'ipotesi del continuo non può essere provata. Questi risultati implicano che si possono costruire sistemi formali negando sia uno che entrambi gli assiomi controversi.

Dunque, anche se la questione della coerenza non è ancora risolta, notevoli passi avanti sono stati fatti rispetto all'epoca in cui i matematici erano preoccupati e sconfortati per la presenza di contraddizioni nei loro lavori, e come fa osservare A.Conte che ha curato l'edizione italiana dell'opera di M. Kline "Storia del pensiero matematico":

<<Oggi la matematica sta vivendo un momento felice della sua lunghissima storia. L'enorme quantità di risultati accumulati negli ultimi cinquant'anni grazie alle genialità dei matematici che sono stati attivi in questo periodo, ma anche al loro numero, che non ha precedenti in altre epoche storiche (si stima che il numero di matematici oggi in attività superi la somma di tutti quelli che sono stati attivi dall'inizio della storia di questa disciplina), consente di affrontare e di risolvere la maggior parte dei problemi posti dalle altre scienze. E anche dal punto di vista della teoria pura, se pure si è affievolita la tendenza alla costruzione di grandi teorie astratte, che è stata tipica degli anni '40-70, la loro applicazione alle questioni lasciate aperte dalle epoche precedenti ha consentito di ottenere risultati di rilievo assoluto. Il terzo millennio si sta per aprire quindi sotto i migliori auspici per questa disciplina antichissima, indissolubilmente intrecciata all'evoluzione della nostra civiltà e che si appresta ad accompagnarla verso un futuro che è sì denso di incognite, ma anche aperto come non mai alla soluzione dei principali problemi posti dalla necessità di costruire un modo di vivere più pacifico e giusto>>.