Come nell’antica versione latina della Bibbia, la
Vulgata, e come nella recente Nova Vulgata
(1986), anche nella presente edizione della Bibbia liturgica
italiana prima dei libri dei Profeti vengono collocati altri sette
libri, denominati da alcuni Didattici, da altri
Poetici, più spesso Sapienziali.
Sono: Giobbe, Salmi,
Proverbi, Qoèlet (o Ecclesiaste),
Cantico dei Cantici, Sapienza, Siracide
(o Ecclesiastico). Tutti questi libri sono stati
tramandati, in un ordine un po’ diverso ma come unico gruppo, dalla
Bibbia dei LXX, che le comunità ebraiche di lingua greca usavano
nelle sinagoghe già prima della nascita di Gesù, e che le Chiese
ortodosse e quelle cattoliche di rito bizantino hanno continuato a
usare fino ad oggi.
Nella Bibbia ebraica, invece, mancano la
Sapienza e il Siracide, e gli
altri cinque libri non formano un gruppo a sé, ma appartengono
all’insieme degli Altri Scritti (detti in ebraico Ketubìm).
Poiché le Bibbie protestanti e quelle anglicane si attengono al
canone ebraico, Sapienza e Siracide
mancano anche in esse.
Giobbe, Proverbi, Qoèlet, Sapienza
e Siracide, assieme ad alcuni Salmi detti “sapienziali”,
costituiscono un gruppo di scritti dominati dal tema della
sapienza: questo tema li inserisce profondamente in un
grande alveo letterario del Vicino Oriente antico. La sapienza
biblica, infatti, è debitrice nei confronti di correnti culturali
“sapienziali” sviluppatesi nelle civiltà vicine, soprattutto in
Egitto e in Mesopotamia. La testimonianza biblica afferma però, in
alcune narrazioni che assumono talvolta anche un tono ironico, la
superiorità della sapienza israelitica su quella straniera (vedi la
figura di Giuseppe in Gen 41, di Mosè in Es 7,8-9,35, di Salomone in
1Re 5,10-11, di Daniele in Dn 2 e 4, e la critica profetica rivolta
ai sapienti dell’Egitto, di Babilonia, di Edom: Is 19,3.11-12;
47,10-15; Ger 49,7). Essa presenta tuttavia anche tracce di un
dialogo e di uno scambio fecondo con ambienti stranieri: ad Agur e
Lemuèl, sapienti probabilmente non israeliti, sono attribuite due
raccolte di proverbi (Pr 30,1-14; 31,1-9), e Giobbe non è un figlio
d’Israele (Gb 1,1).
La sapienza del Vicino Oriente
Antico
In Egitto la letteratura sapienziale appare
particolarmente legata all’ambiente di corte. Rivolta alla
formazione dei futuri funzionari regali o scribi, si è espressa
soprattutto nella forma delle “istruzioni”, cioè insegnamenti che
una persona autorevole (re, o principe, o scriba) rivolgeva a un
destinatario (figlio, successore, erede, giovane, sempre chiamato
“figlio”) per trasmettergli norme di comportamento e precetti da
seguire per ottenere il proprio scopo e avere successo nella vita.
Le “istruzioni” egiziane sono caratterizzate, dal punto di vista
formale, dalla parola iniziale “insegnamento”, seguita dal nome
dell’autore e del destinatario. L’Insegnamento di Ptahhotep
(metà del III millennio) presenta una descrizione della vecchiaia
assai vicina al brano di Qo 12,1-7. L’Insegnamento di
Amenemope (XIII-XII sec.) contiene una sezione strettamente
parallela al brano di Pr 22,17-24,22 (soprattutto 22,17-23,11).
Anche il Cantico dei Cantici e diversi Salmi hanno
conosciuto influenze provenienti da questa area geografica: il primo
mostra sorprendenti somiglianze con i Canti d’amore
egiziani (databili fra il 1300 e il 1150); nel Salterio si riscontra
una chiara affinità dei Sal 104 e 19,2-7 con testi egiziani che si
ispirano al culto del disco solare.
Situato nell’area della
mezzaluna fertile (che si estende dalla foce dei fiumi Tigri ed
Eufrate fino alla conca del Nilo), il paese d’Israele non poteva non
risentire dell’influenza, oltre che dell’Egitto, anche della
Mesopotamia, e delle due grandi culture che lì si sono sviluppate:
quella sumera e quella assiro-babilonese. Già nel III millennio a
Sumer è attestata la presenza di un’istituzione “scolastica”, la
edubba, “casa della tavoletta”, in cui si formavano
gli scribi e i futuri quadri dirigenti (politici e religiosi) e si
coltivavano materie quali la matematica e la musica, si studiavano
opere giuridiche, letterarie e religiose e si trascrivevano opere
antiche.
Una parte della letteratura sapienziale mesopotamica ha
affrontato anche i grandi enigmi dell’esistenza umana: le
disuguaglianze sociali, il carattere aleatorio del destino, la
sofferenza, la morte. Il Poemetto del giusto che soffre
(o Voglio lodare il Signore della sapienza, dalle
parole iniziali dell’opera), databile tra il 1500 e il 1200 circa,
presenta il lamento di un uomo che enumera le sue disgrazie,
rimprovera gli dèi di non aver tenuto conto della sua pietà e di
averlo abbandonato; l’intervento liberatore del dio Marduk muta la
sua situazione e allora egli può ringraziare la divinità.
L’Epopea di Gilgamesh (1200 circa) mostra lo scacco della
sapienza umana di fronte alla morte: numerosi sono i paralleli tra
questo poema e le narrazioni dei capitoli iniziali della Genesi.
La raccolta intitolata Consigli di saggezza
(databile in epoca cassita: 1590-1160) ci conduce, per tono e
linguaggio, al clima biblico di Proverbi e Siracide.
L’opera Storia e massime di Achikàr (V sec.),
redatta in diverse lingue e di cui la versione più antica a noi nota
è quella aramaica (V sec.), conobbe un’enorme fortuna in Oriente: la
figura di Achikàr non è sconosciuta all’autore del libro di
Tobia (1,21-22; 2,10 ecc.) e l’opera, soprattutto nella
sezione riguardante le massime, presenta numerosi paralleli e
somiglianze con il libro dei Proverbi.
I luoghi della sapienza
La culla della
sapienza, in Israele, fu la vita familiare e la vita del popolo.
Sembra fuori discussione, infatti, che la sapienza proverbiale
israelitica sia nata nel contesto della vita di ogni giorno. Sorti
dall’osservazione critica della realtà e maturati dalla riflessione
e dal dialogo, i detti popolari sono stati trasmessi oralmente
divenendo patrimonio universale.
In Proverbi e Siracide
spesso l’insegnamento è rivolto al “figlio” (Sir 2,1; 3,17; 4,1),
anzi, “figlio mio” (Pr 1,8.10.15; 2,1; 3,1.21): certamente questo è
il modo con cui il maestro (chiamato “padre”: Pr 4,1; Sir 3,1) si
rivolge al discepolo; ma il fatto stesso che sia stato assunto
questo linguaggio familiare, da un lato indica che l’insegnamento
del sapiente vuole essere paterno, dunque autorevole, e anche capace
di trasmettere vita; dall’altro, allude alla funzione educativa che
il padre svolgeva all’interno della famiglia. Il capofamiglia è una
prima figura di “sapiente”, in quanto responsabile dell’iniziazione
alla vita del figlio (Pr 4,1-3).
I testi biblici sapienziali
attribuiscono inoltre una funzione molto importante alla corte
regale, in particolare alla persona e alla corte di Salomone. La
sapienza è attributo tipicamente regale anche in altre culture del
Vicino Oriente antico.
E sebbene la letteratura biblica contenga
aspre critiche al “re sapiente” (si pensi al caso di Salomone: 1Re
11,1-13) e ai sapienti di corte (Is 3,1-3; 29,13-14; Ger 9,22-23),
tuttavia il re-messia ideale ed escatologico viene descritto in Is
11,2-3 con i tratti di un sapiente. Le critiche profetiche non sono
dunque rivolte alla sapienza in quanto tale, ma alla sapienza che
dimentica il Signore. Esse equivalgono alla critica sapienziale nei
confronti di chi si ritiene “sapiente ai propri occhi” (Pr 3,7;
26,12.16; 28,11).
Associati al re nell’esercizio della sapienza
sono i “consiglieri” (sia politici che militari; si vedano le figure
di Achitòfel in 2Sam 16,23 e di Cusài, definito «amico di Davide»,
in 2Sam 15,37; 16,16). Anche la figura dello “scriba” è attestata a
corte (2Re 18,18.37; 22,3.8): si tratta probabilmente di un
segretario o cronista. La notizia di Pr 25,1 circa i «proverbi di
Salomone, raccolti dagli uomini di Ezechia, re di Giuda» sembra
alludere a un’attività scribale che si svolgeva a corte, forse nel
contesto di una vera e propria scuola.
Dopo l’ambiente familiare
e quello della reggia, un terzo luogo di origine e sviluppo della
sapienza in Israele fu la scuola (Sir 51,23 attesta l’esistenza di
una “casa di studio”, bet-midrash, nel II sec.
a.C.). Il sapiente era anche un insegnante. Lo stile didattico di Pr
e il fatto che il sapiente sia chiamato “maestro” o “insegnante” (Pr
5,13; Sal 119,99) fanno pensare che vi fossero scuole in cui
sapienti di professione trasmettevano il loro sapere ad allievi più
o meno giovani (vedi Ger 18,18, che associa la legge ai sacerdoti,
la parola ai profeti e il consiglio ai sapienti). È possibile che,
oltre a scuole regali, siano esistite anche scuole sacerdotali, per
trasmettere il sapere riguardante il culto, i sacrifici, il puro e
l’impuro. Nel periodo post-esilico, del resto, il sapiente si
configura sempre più come “scriba”, cioè studioso della rivelazione
scritta ed esegeta dedito alla meditazione della Torah
(vedi Esd 7,10; Sir 32,15; 39,1). Si prepara così il
terreno per lo sviluppo del rabbinismo.